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Cenni sull’antropologia e sull’etica in Giacomo Leopardi

di Loretta Marcon

Nell’opera di Leopardi esistono alcune riflessioni, forse non considerate o approfondite adeguatamente, che riguardano il quotidiano, il vissuto di ogni giorno; certe riflessioni personali sulla vita e sull’uomo le quali, senza avere la pretesa di toccare teoreticamente temi metafisici, fanno parte dell’esistenza di ognuno di noi.

Sono da riscoprire, perciò, non solo certi passi dello Zibaldone ma anche taluni particolari che si trovano qua e là sparsi nell’Epistolario, nei Pensieri, e nei Progetti letterari.

Se fino ad alcuni anni fa, non erano oggetto di attenzione gli episodi dell’infanzia e dell’adolescenza e le prime esercitazioni poetiche del Poeta, allo stesso modo la quotidianità semplice che egli osservava con attenzione, e persino con condivisione, non rivestiva grande interesse da parte dei leopardisti. Io penso invece che proprio tale “osservazione” possa rappresentare una chiave di lettura per rivelare non solo il poeta o il filosofo ma soprattutto  “l’uomo” Leopardi.

Chi era? Era veramente quel disgraziato, frustrato e perciò pessimista, che gli studenti recepiscono sotto le spiegazioni dei docenti o attraverso certa manualistica un po’ datata?

Mi sono chiesta spesso come Giacomo guardasse alla vita altrui: con la superiorità del suo essere nobile, con il desiderio di capire i suoi simili, con quel certo interesse che diventava fruttuoso per un pensiero successivo o, forse, con umana “invidia”?

Ma come, si obbietterà, Leopardi poteva invidiare qualcuno e, in questo caso, chi? Intendiamoci però sul termine: la sua invidia non derivava certo da un sentimento di malanimo ma ci appare invece pacata, poetica, quieta e rivolta a quel piccolo fattivo mondo recanatese che si affannava nel lavoro quotidiano; il giovane conte guardava lo zappatore che, fischiando, riede alla sua parca mensa pensando al riposo del giorno festivo, e al legnaiuol, che veglia/ Nella chiusa bottega alla lucerna, alla donzelletta che torna con il suo fascio dell’erba, alla vecchierella che siede sull’uscio di casa a filare.

“Invidia melanconica” dunque, per quelle umili povere persone non tormentate da quelle occupazioni interiori, dai martirii del pensiero tipici del filosofo e dello studioso. Si affacciava a quella finestra che guarda la piazzetta e, dopo aver deposto la penna, guardando quell’umile mondo affaccendato, privo di titoli nobiliari e senza erudizione, si sentiva prigioniero del proprio rango e del proprio pensiero, poiché comprendeva che «il modo di occupazione con la quale la vita si fa manco infelice che con alcun altro, si è quello che consiste nel provvedere ai propri bisogni» . Lo sa, ne è ben cosciente: sono «i piccoli fini della giornata» che tengono lontana la noia, intesa in senso profondo, esistenziale, quel male di vivere (cit. Montale) che i tempi moderni ben conoscono.

Esiste in proposito un aneddoto, pubblicato in un vecchio articolo del «Corriere della sera» del 19 luglio 1914 che ho ritrovato quasi per caso in una biblioteca mentre svolgevo alcune ricerche. Lo riprendo qui perché, nella sua semplicità, lo ritengo illuminante per comprendere il modo d’essere di Giacomo Leopardi:

«A Recanati, sulla via di Montemorello, di fronte al paesaggio che poté inspirare il lirismo solenne e possente dell’Infinito, v’è un masso che fu caro a Giacomo Leopardi, il quale vi si sedeva per attendere alla lettura o alla meditazione. Un vecchio negoziante che si prestava come guida al forestiero racconta, a tal proposito: “Mia nonna veniva qui sotto a far erba. Allora, al tempo del Poeta, non c’era la strada. Mia nonna si doleva che quel giovinetto se ne stesse lassù sulla balza, zitto e malinconico. E gli diceva talvolta: – Lei, signor conte, pensa troppo, a me pare. Non le fa male  alla salute studiar tanto?


Giacomo Leopardi rispondeva: “Avete ragione, Maria Domenica. Non si dovrebbe studiare mai, non si dovrebbe pensare mai. Voi beata che cogliete erba e cantate!” La mia nonna lo invitava a scendere allora nel campo; e lui scendeva, tutto buono e gentile. Aveva sempre una buona parola per i poveri e la mia nonna diceva che non poche volte egli la interrogava su questo e quel tal malato o moribondo del paese: “Che male ha?”, chiedeva. S’informava di tutto: e se qualcuno aveva malattia grave, voleva conoscere i sintomi, le fasi, le sofferenze. Qualche volta sparava il ferraiolo [mantello] e diceva alla mia nonna: “Io non ho soldi, Maria Domenica, ma ne troverò e ve ne porterò”. Così riferisce Mario Puccini, che in una sua Passeggiata Leopardiana, pubblicata nel fascicolo di luglio della “Lettura”, è guida commossa ed eloquente attraverso la città e i luoghi in cui si maturò la vita e la musa di Giacomo Leopardi».

Un aneddoto che dimostra l’attenzione di Leopardi per ogni aspetto della vita. Il suo chinarsi sul quotidiano di ogni persona che incontrava e che diveniva oggetto di osservazione e di riflessione. La famosa “torre d’avorio” – dimora esclusiva dell’élite dei sapienti che disdegna il semplice conversare con la saggezza popolare – non gli apparteneva, cercando egli soltanto le gentili anime che potessero comprenderlo.

Ha 23 anni quando inizia a riflettere sulla differenza tra vivere ed esistere.

La vera vita è quella che consente di concepire illusioni, «somiglianze d’infinito» «maravigliose larve», capacità di sognare, di entusiasmo, di calda passione, di uno slancio che porta a compiere grandi azioni o anche solo a coltivare alti ideali.

Molte sono le riflessioni leopardiane sull’antitesi vita/esistenza. Le riflessioni che emergono all’interno dell’una e dell’altra riguardano aspetti della vita, quali il sentimento, la vitalità e la compassione (intesa come amore verso gli altri). E soprattutto la speranza come scintilla che non abbandona mai l’uomo nemmeno nel momento della più grande disperazione. E, per contro, la considerazione della mera esistenza, il lasciarsi vivere, con la noia, l’indifferenza, la constatazione del limite quindi dell’impossibilità della perfezione, la possibilità del suicidio e, infine, la morte.

Com’è noto, la “filosofia” leopardiana si ritrova all’interno delle pagine dello Zibaldone e nelle Operette morali. Vi sono però altre pagine da considerare per comprendere il concetto dell’uomo in Leopardi, le sue idee intorno a vizi e virtù, il suo pensiero sull’amicizia, sulla sincerità ecc.. Sono quelle dell’Epistolario e dei Pensieri ed è in queste che noi ritroviamo quelle piccole perle di saggezza che formano quella che egli stesso chiamava «arte del vivere».

Sono pensieri che derivano dalla considerazione dei diversi aspetti di quella vita (sarebbe meglio chiamarla invece solo esistenza) che egli, inizialmente, ritiene simile ad «una commedia» (dove tutti gli uomini fanno la loro parte) ma poco dopo chiamerà «prova di commedia». Infatti, egli osserva, non ci sono più spettatori poiché tutti recitano «e le virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri».

Questi aspetti non sembrano per nulla insignificanti, quando si vuole tentare di comprendere la personalità di Leopardi.

Ed è così che scopriamo come al centro dell’interesse del Nostro non ci sia quella filosofia volta a studiare le problematiche della conoscenza ma, invece, l’indagine morale, l’etica; vista anch’essa non sotto il profilo teoretico, volta cioè alla ricerca della soluzione di classici problemi morali quali ad es. normatività e responsabilità, eteronomia e autonomia ecc.. Si tratta invece di un’etica che si può chiamare critica della vita, che si rivolge all’uomo e che risulta essere altamente umana e non lontana dalla morale evangelica poiché si basa sulla compassione reciproca tra gli uomini accomunati dallo stesso destino.

Leopardi guarda all’uomo e mette in rilievo le sue debolezze, i suoi errori, la sua ridicola superbia e quell’egoismo che impedisce una forma di vita più umana. Da sottolineare come egli non sia animato da moralismo malevolo ma, invece, da amore verso i suoi simili.

All’amico Giordani egli scriveva:

«io non credo che i tristi vivano meglio di noi. Se la felicità vera si potesse conseguire in qualunque modo, la realtà delle cose non sarebbe così formidabile. Ma buoni e tristi nuotano affannosamente in questo mare di travagli, dove non trovi altro porto che quello de’ fantasmi e delle immaginazioni. E per questo capo mi pare che la condizione de’ buoni sia migliore di quella de’ cattivi, perché le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente: sicché ristretti alla verità e alla nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno?  (1820)»

Uomo semplice e di grande modestia, non lodava mai se stesso e aveva grande rispetto per coloro che leggevano le sue opere al punto da scrivere queste righe nella Prefazione alle Rime del Petrarca da lui “interpretate”: «dovunque io non ho inteso, ho confessato espressamente di non intendere acciocché il lettore, non intendendo, non si credesse né più ignorante né meno acuto dell’interprete». Eppure era ironicamente consapevole del fatto che «chi vuol vivere si deve scordare della modestia» perché «gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso».

Invece «gli uomini grandi sono modesti perché si paragonano continuamente, non con gli altri, ma con quell’idea di perfetto che hanno dinnanzi allo spirito e considerano quanto sieno lontani dal conseguirla».

Un messaggio universale diretto agli uomini di ogni tempo! Un Leopardi tutto da scoprire!

Loretta Marcon  –  giugno 2022