fbpx
prefazione caputo

Prefazione Bianca vestita di nero

Autrice Angela Capute

Prefazione a cura di Elena Midolo

«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.»
(Primo Levi)

«L’uomo può essere nel suo intimo più forte del destino che gli viene imposto dall’esterno.»

(Victor Frankl, Uno psicologo nei lager)

«Chi ha un perché per vivere sopporta quasi ogni come.»

(Friedrich Nietzsche)

La scrittrice Angela Caputo ha ben combinato creatività e uno spaccato di storia generando un romanzo che, sulla base di un’accurata ricerca documentaria, schiude un capitolo doloroso della realtà italiana in cui gli orrori del secondo conflitto mondiale hanno lasciato tracce indelebili. Bianca vestita di nero è, in fondo, l’analisi di un pezzo di periodo in cui i regimi fascista e nazista hanno dipinto ancor più di scuro la società italiana, già oppressa da una guerra non più combattuta dietro le trincee ma attraverso bombardamenti, persecuzioni e deportazioni che hanno massacrato gli animi della popolazione civile disgregandola e sfaldandola. È anche il racconto fantasioso della vicenda sentimentale che ha come protagonisti una giovane fascista e un medico ebreo.

La narrazione contribuisce a testimoniare gli aspetti più crudeli e disumanizzanti del dramma della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio; non solo: contribuisce a evitare la caduta nell’oblio di una pagina storica ripugnante e atroce che si è aperta con le leggi razziali, scritte dai gerarchi del regime fascista ma volute da Mussolini e sottoscritte dal re Vittorio Emanuele III. Queste leggi hanno permesso l’arresto e l’internamento di ebrei stranieri in Italia e, in seguito, hanno fornito la chiave d’accesso ai nazisti di individuare, rastrellare, internare e deportare nei lager gli ebrei italiani. Assieme a loro anche i dissidenti. L’autrice pone l’accento sulla deportazione nei campi di concentramento, che ha investito ebrei di ogni dove e i tanti non allineati con il programma, pianificato e strutturato, sulla superiorità della razza ariana voluto dal nazionalsocialismo e poi dall’olimpo fascista.

Angela Caputo, pertanto, partecipa con umiltà a testimoniare la Shoah, senza violare il diritto legittimo di coloro che hanno vissuto le atrocità dei lager a esprimere la loro sofferenza. Una testimonianza che ha la finalità di non dimenticare episodi strazianti ma pure di formare nuove coscienze che non dovranno archiviare o, peggio, negare la moltitudine di vite spezzate nei campi di sterminio e i patimenti sofferti da quanti hanno avuto la forza, più psichica che fisica, o forse anche la fortuna, di sopravvivere alla nefandezza della soppressione persino della dignità dei deportati. Una testimonianza che in sé racchiude l’obbligo di ricordare il contesto politico-sociale in cui la finitezza umana ha perpetrato misfatti e delitti, non solo per ragioni di conoscenza di quanto la distruttività umana abbia concorso a schiacciare la libertà finanche di chi si è reso soltanto complice ma colpevole, oso affermare dell’annientamento dei deportati uccisi nei lager.

Ben sappiamo che una miscellanea di culto per il leader e di orgoglio comune, forse anche di conformismo e clima di terrore, ha spinto molte persone a condividere decisioni empie e drastiche, con gravi conseguenze irreversibili, sull’eccidio degli ebrei innanzitutto. Persone che hanno agito con estrema crudeltà spesso attuando meccanismi, come la scissione dalla realtà, per perpetrare e perpetuare il male tramite torture e omicidi. Adesso ben conosciamo l’essenza dei campi di concentramento, in realtà di sterminio, come Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Treblinka.

Tuttavia, a molti è sfuggita o è stata ignorata l’esistenza in Calabria del campo di concentramento Ferramonti di Tarsia, il più grande in Italia, voluto dal regime fascista dopo il 1938, e l’unico in cui gli internati vivevano in condizioni umane accettabili. Proprio di questo campo ci parla la nostra scrittrice, non in maniera fredda e nozionistica. Pertanto, ci descrive il luogo in modo evocativo e non didascalico. Angela Caputo ci fa conoscere il campo e un tratto storico rilevante e significativo mediante i racconti e i dialoghi dei vari personag-gi, anche attraverso le dinamiche interrelazionali di quel periodo non prive di acquiescenza al sopruso e di miserie d’animo. Il linguaggio è semplice, limpido, strutturato secondo il momento storico narrato, persino peculiare della personalità di ciascun personaggio. I diversi “io” narranti non hanno un carattere distaccato rispetto alla ragion d’essere del romanzo, piuttosto la loro presenza li pone con essa in un rapporto di vicinanza, esplicativo, esegetico; di strumento di decodificazione e comunicazione di libertà umana, di discernimento fra bene e male, di funzionalità del pensiero razionale; di specchio dell’ideale e del reale, pur fra loro distanti, di regresso e di progresso sociale e di costruzione, o ricostruzione, di leggi morali universali. La tecnica espositiva è assente di infodump, molto in uso nei romanzi ottocenteschi e del Novecento.

La vicenda amorosa fra Bianca e Goran si snoda sullo sfondo di aspetti militari e guerreschi e di fedeltà al fascismo e alle ideologie hitleriane contrapposti alle sfaccettature della solidarietà e dell’onore per dare senso all’io e conservare, anche realizzare, dei valori morali come risposta all’incertezza del futuro, tipicità di ogni evento bellico. Accanto ai protago-nisti ruotano molti personaggi, ognuno inserito in precisi contesti che confluiscono in due realtà differenti. Una dominatrice quella del fascismo e del nazionalsocialismo, ma anche dei delatori, caratterizzata da una deficienza morale e da una mancanza di carattere nella scelta tra le ragioni ideali e quelle pratiche e l’altra dominata e succube. Quest’ultima è la parte di popolo che rifiutava il regime fascista e l’antisemitismo e vi si opponeva contrastandoli attraverso azioni celate e che custodiva, nel segreto del proprio animo, lealtà e amore verso il prossimo, al di là della razza” di appartenenza.

Grazie alla sua opera, l’autrice rende omaggio a tutti gli ebrei, sia sopravvissuti sia deceduti nei lager, e li rappresenta quasi una vestizione attraverso un numero casuale: quello tatuato sulla pelle del deportato ebreo Goran. Numero emblematico, testimone di dolore infinito, di quanti costretti alla morte morale, psichica, addirittura fisica, nei lager per volontà di un male l’odio di razza voluto soltanto da Hitler. Quel male è stato il motore di un macchinario mostruoso e inarrestabile che ha coinvolto, a macchia d’olio, come pezzi di un ingranaggio, gli esecutori di quel male” stesso interpretato come il bene per gli ariani. Tuttavia, Angela rende dignità a chi non si è lasciato travolgere da certi meccanismi di psicologia di massa da quel male e ha rivestito persino ruoli di salvatore, seppur di una o di poche vite umane, al di là delle ideologie politiche infestanti e invadenti.

Infine, la scrittrice omaggia la memoria di un ex librista, artista famoso, le cui opere sono esposte in tanti musei del mondo, che è stato deportato nel campo di concentramento di Ferramonti, dove aveva aperto un atelier artistico di grande importanza: Michel Fingesten.

Bianca vestita di nero apre un varco a tante riflessioni, anche sulle modalità di pensiero e di approccio psichico alla prigionia degli internati nei campi di sterminio.

Angela ci presenta un Goran che conserva i ricordi, quasi come rimedio per contrastare una forma di alienazione non ancora conclamata e che lo sorregge per non perdere il senso della vita.

È un uomo distrutto fisicamente che si aggrappa ai ricordi dell’amore come tesoro interiore per battagliare la crudele brutalità e le condizioni disumane del lager quasi a sperimentare una creatività della sofferenza che gli consenta di abbattere pensieri meccanicistici e di accettare le tribolazioni inflitte dall’esterno per continuare a resistere, a scorgere una possibilità di vita, a individuare uno scopo dell’esistenza. Ma l’autrice ci tiene con il fiato sospeso e non sappiamo se le sue sofferenze lo condanneranno alla morte oppure se i ricordi lo salveranno. È come se la scrittrice calasse il velo del silenzio su Goran. Un silenzio simile a quello di coloro che non hanno potuto raccontare se stessi né le sofferenze patite: il silenzio dei deceduti. A questo silenzio, inaccessibile, Angela si accosta in punta di piedi.

La veste storica del romanzo sembra adombrare l’evoluzione del pensiero di Bianca e molti aspetti sociologici e psicologici dei fatti circostanziati; elementi che, invece, confluiscono in maniera naturale, non con stile artificioso, nella narrazione e che rivelano consapevolezza morale della nostra scrittrice sulla realtà effettuale del periodo, inquadrato con occhio attento e distaccato per una visione nodale e persino spirituale dell’Italia. Sotto questo profilo, Bianca vestita di nero assume un prezioso valore storico e psicologico, con un rilievo educativo non indifferente.

                                                                                                            Elena Midolo