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L’amico Giacomo e l’affitto arretrato

di Francesco Ferracuti

Nascere nelle Marche è una fortuna. Noi marchigiani lo sappiamo bene: è uno dei posti più belli al mondo. Per questo non lo diciamo a nessuno; stiamo zitti e lo teniamo per noi. Ci limitiamo a un mezzo sorriso complice quando qualche turista lo scopre da sé, transitando da queste parti sulla via della Romagna o della Toscana, ad esempio, oppure delle Puglie, a seconda della direzione di viaggio. Verso il Molise no, perché lo sanno tutti che non esiste. E insomma quando questo accade, quando la nostra Regione si disvela, allora nutriamo la soddisfazione orgogliosa del contadino -scarpe grosse e cervello fino- che osserva qualcuno godere dei veri prodotti dell’orto invece che di insapori proposte agroindustriali: come un portatore di verità lungamente celate, un San Giovanni Battista delle zucchine e della lattuga.

Anche scrivere è un vantaggio. Costa molto meno degli ansiolitici e delle psicoterapie, e comunque anche in questo caso è un impegno che si sottace, che non si sbandiera (sempre meglio esporsi poco; non si sa mai).

Va’ a sapere se questo è retaggio di sopravvivenza al dominio dello Stato Pontificio (quanto fossero aspramente esattori i marchigiani lo ricordano i proverbi) o esito di una vita cresciuta tra vallate strette in una cartolina percorribile da mare a monti in nemmeno un’ora. Studi critici anche più arditi di questi hanno cercato di spiegare il carattere  peculiare del popolo delle Marche e soprattutto il messaggio di uno dei suoi figli più splendidi: Giacomo Leopardi.

Recanati ronfa come un gatto adagiata a due colli da casa mia. Per chi ha il vezzo della letteratura (magari come il sottoscritto; magari addirittura della poesia) è come avere Giacomo per coinquilino. Un amico quotidiano che puoi non incontrare per settimane intere, ma senti vivere nella stanza accanto. E che quando scappi dagli impegni presi con te stesso, impegni di sincerità, di ricerca del Vero, per pigrizia o per paura, ecco che esce aprendo la piccola porta del suo studio (una visita a Palazzo Leopardi rende l’immagine assolutamente concreta) e con grande delicatezza, ma fermamente, ti chiede conto del ritardo nella parte di affitto che avresti dovuto già pagare da tempo.

Allora riprendi in mano tutti i fogli che hai già scritto e che sembravano fatti e finiti. Rileggi, scopri le zoppìe, gli eludimenti, le piccole disonestà perpetrate a vergogna dello sforzo dichiarato di essere sinceri con noi stessi.

Domanda, Giacomo, di conoscere la profondità della traccia lasciata dal suo peregrinare di ricercatore immoto, chiuso tra poche mura, rare vie, coste di libri a chi cova la nascosta ambizione di seguirne in qualche misura i passi.

In pagine e pagine di pensieri fissati in ordine più o meno organizzato e voluto, in dialoghi di introspezione psicologica , in continue sofferte dispute filosofiche con se stesso, ha con tenacia esemplare perfezionato uno strumento chirurgico, affilato negli studi matti e disperatissimi e nei desideri inesprimibili, alla ricerca della parola netta, ablativa, capace di dissezionare il mondo delle cose nella sua verità chiusa alla penombra anche metaforica delle persiane semichiuse di un palazzo nobiliare.

Anche non conoscendo l’intero suo corpus (bisognerebbe; sia dannata la mia ignoranza), anche con un approfondimento di grado semplicemente scolastico non si è in grado, da “vicini di stanza”, di non chiedersi quale  tensione osservativa, quale peso lessicale, quale profondità di aratura si sia stati capaci di presentare in confronto a lui, quanto si sia stati limpidi nel mettersi in gioco.

Ingombra la presenza amichevole di questo compagno di percorso nella giusta istanza di sincerità e rigore. Picchietta sulla spalla esortando a non cedere, a non lasciarsi ingannare dall’ottimismo di un conseguimento solo apparente e  andare sempre più in profondità nella forma della lingua equilibrata, rasata piana, che non allarma non minaccia non verte al rutilante o al fragoroso e facilita l’abbassamento della guardia e la scopertura ai flussi della relazione tra l’umano e l’oltreumano.

Benevolente e gigantesco, condivide il gergo locale della crescita e dell’esperienza, è uno di qui. Ma proprio per questo è il nostro specchio; il mio. Conosco chi conosci tu, so dove vai: non ci nasconde da Giacomo Leopardi, non ci si allontana. Se rappresenti il paradigma della marchigianità non saprei davvero dire, e forse sarebbe alquanto azzardato. Ma di certo per chi come me abita il senso di queste colline, un percorso di sassolini lungo un buio sentiero nel bosco.

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La voce delle fate

di Francesca Ghiribelli

La dolce storia di due leggiadre e possenti libellule che volano frettolose a pelo d’acqua, portando a spasso due paffuti gnomi, che innamorati del cielo, sgombrano le nuvole con i loro pensieri, viaggiando fra le inchinate chiome di sprimacciati e delicati fiori di caprifoglio. Essi fan da divertenti liane agli abbracci del bosco, mentre piccole e minute coccinelle salgono e scendono i tronchi di un grande e vecchio faggio, cercando l’irraggiungibile infinito negli occhi verdi smeraldo di una terra, ancora fantasticamente sognante.

Brillanti lucciole accendono il cuore della foresta, nel tacito riposare delle formiche sui sassi, mentre una civetta rivive nel suo sguardo il tepore del sole, ormai scomparso: le venature di un fuoco d’artificio, non ancora spento, che dal nascere delle ombre crea un faro nella notte.

La vita è ancora tutta da vivere per il bosco, perché l’oscurità è il silenzio del giorno, dove le parole sono scritte dal magico sussurrare degli elfi, accompagnati dai loro campanellini. Loro spiano il regno circostante e si impossessano del sorprendente risplender di una stella, ne fanno la carrozza più bella per andar a prendere la creatura più divina della foresta; con i loro cappellini a barchetta e piccoli orecchini dalle gocce d’argento, si imbarcano fra le vie più impensate che il cielo possa inventare e attendono di veder apparire sulla scia della luna, la forma di una preziosa perla farsi snella, mentre un’avvolgente chioma scende sulle spalline di un minuscolo abito di ninfea. Docili foglioline increspano la sottana, dove spuntano agili gambe che danzano al tempo di una sinuosa danza, fatta di ali di una velina colorata.

I silenziosi campanellini gioiscono alla loro vista, poi gli elfi, un po’ intimiditi, fanno salire sulle loro dorate carrozze quei piedini intinti nel latte di luna e partono alla volta di un viaggio la cui meta sarà scritta soltanto dalla fantasia.

Sembrano tanti fantasmini che illuminano la nera trapunta del cielo, poi il cuore del bosco sbadiglia, sorprendendosi di quella scintilla che porta dietro di sé cotanta meraviglia; le creature della terra rientrano nelle loro tane, facendo ricordo di quell’indimenticabile attimo, rifugio di un sogno.

Uno scalpitio lontano ingrazia il tintinnare di un trepido sonaglino, adesso è in procinto di giungere fino al letto di un bambino: lì racconterà come le favole, possano ancora esistere in un piccolo angolo di mondo.

Come le fanciulle possano ancora intingersi i capelli nella polvere di una stella e rubare al cielo una timida goccia di luna, perché al calar della notte ancora tutto può succedere… basta saper ascoltare lontano una melodia fugace… soltanto allora saprai che è la voce delle fate.

Francesca Ghiribelli