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Un brindisi letterario

Prefazione Versi di-vini

di Emanuele Lavizzari (Giornalista)

Bisogna essere dei fini cultori dell’opera dantesca o degli esperti degustatori per addentrarsi nella lettura di queste pagine? Si deve conoscere la Divina Commedia a menadito o aver affrontato studi di enologia e viticoltura? Sono richieste la competenza di un filologo romanzo o l’esperienza di un sommelier di lungo corso? Niente di tutto questo, perché un testo divulgativo come quello scritto da Martina Paolantoni avvicina anche il lettore meno esperto dell’uno o dell’altro ambito e l’invita a riprendere in mano le tre cantiche per rivivere il viaggio del Sommo Poeta con un nuovo sguardo.

Perciò che siate appassionati dell’opera del vate fiorentino o amanti del buon bere oppure semplici lettori curiosi troverete in questo volume qualcosa che vi arricchirà e vi entusiasmerà.

Emanuele Lavizzari, giornalista

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ORVIETO E LUCA SIGNORELLI A 500 ANNI DALLA MORTE

di Donato Catamo

Non è facile introdursi tra le righe delle pagine che raccontano della bellezza, della civiltà, della cultura, della vita e della quotidianità della nostra immensa splendida Italia “artificiale e naturale”. Infatti non c’è soluzione di continuità tra l’opera compiuta dalla testa e dalla mano dell’uomo e quella che madre Terra ci ha donato, che spesso di fondono e si presentano come un unicum, in un rapporto di simbiosi tra umano e divino. Pare che la “matrona Natura” abbia lasciato scritto un atto notarile e rivolgendosi agli homines abbia detto “ora fate la vostra parte e completate l’opera”.

La Rupe di Orvieto è uno scherzo fantastico dell’Olimpo, inviatoci da Minerva attraverso Mercurio oppure è un dono della Terra durante la sua formazione orografica?

Qui dagli Etruschi in poi hanno trovato dimora, adagiandosi, dei, papi, geni, mecenati, condottieri, maestri di vita e di cultura, ecc…, trasformando questo comodo e quasi spirituale trono di pietra come lo definì George Dennis, archeologo, scrittore e diplomatico inglese nel capitolo dedicato ad Orvieto del suo libro The cities and cemeteries of Etruria pubblicato a Londra nel 1848, citato dall’archeologo Giuseppe Maria della Fina, in occasione della presentazione di una mia mostra nel dicembre 2009 presso la Nuova Biblioteca Pubblica “Luigi Fumi” di Orvieto ed ovviamente riportato nel testo del relativo catalogo (fig. 1).

Orvieto ha ospitato divinità pagane, etrusche e romane, e cristiane, e quindi una commistione tra sacro e profano, una forte impronta culturale quali templi, aule, chiese, luoghi di culto e di studio, di preghiera, palazzi nobiliari, ecc. Alla bionda rupe, da sempre, hanno rivolto l’attenzione moltissimi studiosi, archeologi, storici, scrittori, ricercatori, narratori e viaggiatori ed hanno lasciato il loro segno architetti, pittori, scultori, incisori, fotografi, ma anche religiosi come papi, cardinali, vescovi, prelati e conventuali. Il riferimento religioso più importante è stata la bolla papale di Urbano IV che nel 1264, 11 agosto, istituì la festività del Corpus Domini, conseguente al miracolo di Bolsena del 1263. E’ chiaro che tutto ciò che ne è conseguito fino ad oggi a livello di interventi artistici nella cattedrale di Orvieto, ruota intorno all’evento miracoloso a cui tutti i cristiani cattolici fanno cenno, non soltanto in occasione della ricorrenza della festa del Corpus Domini. Tra i grandi maestri che si sono succeduti citiamo: Lorenzo Maitani, Arnolfo di Cambio, Andrea di Cione detto l’Orcagna, Ugolino di Vieri, Ugolino di Prete Ilario, Benozzo Gozzoli, Beato Angelico, Gentile da Fabriano, Luca Signorelli, Ippolito Scalza, Francesco Mochi e molti altri.

Inoltre Freud aveva visitato gli affreschi della cappella di San Brizio nel settembre 1897 e tra il 1898 e il 1899 colse l’occasione per esaltare l’opera del maestro cortonese nella stesura de “L’interpretazione dei sogni”.

AL Giudizio Universale il maestro cortonese operò dal 1499 al 1504 circa ed i contenuti della grande opera sono stati affrontati, trattati, analizzati, interpretati e descritti da molti storici dell’arte, tra cui ultimo in ordine di tempo annotiamo l’architetto Raffaele Davanzo, storico, con la pubblicazione di “La appella di San Brizio ad Orvieto”, Ed. Il Formichiere – 2021, dove Egli affronta e discerne di contenuti non solo tecnico pittorici, ma anche storici e letterari, (fig. 2). Tale opera era rimasta nascosta dietro l’altare della Madonna di San Brizio, realizzato da Bernardino Cametti nel 1715 e riscoperta durante i restauri degli anni ’90 del secolo scorso. La figura è identificabile con Caino, forse. Il primo osservatore ed estimatore dell’opera di Signorelli pare sia stato Michelangelo, che nei suoi trasferimenti Firenze/Roma e viceversa, sostava sulla rupe non soltanto per rifocillarsi. Ma ciò che stupisce, al di là di quanto raccontato, interpretato e messo a disposizione dagli storici, è la modernità, anzi la contemporaneità e soprattutto l’anticipazione di figure come angeli, demoni e santi nelle forme robotiche che si muovono nello spazio (fig. 3) ed estrapolate da sceneggiature prima e da scenografie poi, pronte per essere utilizzate sul set cinematografico di un film di fantascienza ambientato nel 2100 e predisposto per l’annuncio di una nuova grande apocalisse per un ulteriore Finimondo.

Nel 1973 il maestro cortonese/orvietano, a 450 anni dalla sua dipartita, venne celebrato dalla città di Orvieto, con la collaborazione del comune e dell’allora Istituto Statale d’Arte, oggi Liceo Artistico Statale, del Liceo Classico Statale, del Vescovado, dell’Azienda Autonoma di Promozione Turistica e di altre agenzie culturali pubbliche e private, ovviamente di questa città.

Dei vari comitati facevano parte il presidente della Repubblica italiana, il presidente del Consiglio dei Ministri, il Ministro dei Beni Culturali ed il Ministro della Pubblica Istruzione, il Preside ISA Giunio Gatti, il preside del Liceo Classico ed i professori Benedetto Burli, Adriano Casasole, Santo Vincenzo Ciconte, Renato Ingala, Luigi Moretti ed anche il sottoscritto.

Primo relatore era il professor Pietro Scarpellini, ordinario di Storia dell’Arte presso l’Università di Perugia, mentre il moderatore era lo scrittore Prof. Giorgio Bassani. Il convegno ebbe luogo presso il Teatro Luigi Mancinelli di Orvieto. Da rammentare le molte testimonianze pervenute a livello internazionale.

L’anno 2023, segue il 2022, in cui hanno avuto luogo le celebrazioni relative ai 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, alla cui Opera Magna Signorelli ha rivolto molta attenzione nell’esecuzione degli affreschi orvietani. Di questo ne parleremo più ampiamente nella prossima comunicazione.

Donato Catamo

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LA CAPPELLA MUSICALE COSTANTINIANA IN “FIREWORKS”

Sabato 9 luglio ore 21 Mausoleo Santa Costanza

di Martina Paolantoni

Nella suggestiva Basilica Circiforme di Sant’Agnese fuori le mura, a fianco al Mausoleo di Costanza, l’Orchestra e il Coro della Cappella Musicale Costantina eccellenza del panorama musicale italiano, presentano: Fuochi d’Artificio (Fireworks), il 9 Luglio alle ore 21,00.

L’orchestra sinfonica darà il via ad un concerto memorabile dove sarà eseguita l’Overture Die Hebriden  “Fingals Höhle” (Le Ebridi “La grotta di Fingal”) op. 26. A seguire alcuni capolavori di G.F.Haendel – Zadok the Priest e alcuni estratti dalla celebre Water Music. Il Concerto terminerà con FIREWORKS Royal Fireworks Music.

Nata nel 2004 con l’intento di diffondere e sostenere l’Arte e in particolare la Musica, l’Orchestra della Cappella Costantiniana oggi è punto di riferimento nel panorama italiano (tra i suoi membri costa finanche di l’oboe, il fagotto, e l’arpa). Una realtà strutturata, arricchita da un coro e con musicisti motivati nel trasferire la propria esperienza ai giovani  e le proprie emozioni al pubblico, che oltre ai fedelissimi diventa sempre più vasto. La conoscenza del linguaggio e la capacità di armonizzare differenti caratteri sono uno dei riferimenti dell’orchestra che negli anni ha costruito ed eseguito un repertorio amplio e multiforme, dalla Polifonia ai gradi compositori del novecento.

Incontriamo l’amico Paolo De Matthaeis direttore dell’orchestra, nonché organista della Basilica di S. Agnese e San Pietro in Vincoli, che narra gli aneddoti storici legati alla prime presentazioni dell’opera.

Il pretesto per la composizione di questo lavoro furono le celebrazioni per la Pace di Aquisgrana nel 1748, il re non badò a spese e volle grandi festeggiamenti e fuochi d’artificio, prodotti da una gigantesca struttura in legno lunga 124 metri e alta 34. Ma il destino fu bizzarro e nella prima esecuzione (1749) nel Green Park di Londra alla presenza di un pubblico di dodicimila persone, piovve e una parte della macchina, anziché azionarsi, prese fuoco e crollò al suolo. Infine quando l’opera venne pubblicata, benchè Händel avrebbe voluto presentarla come un’ouverture, dovette accontentarsi del titolo di Musica per i reali fuochi d’artificio dato dalla Corona, come propaganda in favore di un trattato altrimenti impopolare.

Il nove luglio invece c’è da aspettarsi un grande spettacolo messo in scena dall’ Orchestra della Cappella Costantiniana complice una location unica e suggestiva; ed a illuminare il cielo saranno non i fuochi ma un cielo stellato!

Convinti sostenitori della Cultura realizzano questo evento in collaborazione con il Mausoleo e Catacombe di Costanza che sarà possibile visitare prima del concerto a partire dalle 19.30 fuori orario ad un prezzo ridotto prenotabile direttamente alle Guide autorizzate locali.

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Recensione L’Inconfessabile (Arcimbaldo Materiale)

di Chiara Martini

Intenso, coraggioso, intimo, molto più di un romanzo religioso: un riuscito e sorprendente viaggio nelle contraddizioni dell’animo umano, una complessa e strabiliante #esperienza letteraria, un inno alla Nostalgia e un grido di sopravvivenza del Perdono.

Si intitola “L’Inconfessabile” ed è l’opera prima di Arcimbaldo Materiale.

Paolo è il figlio di un ricco possidente. Francesca è la figlia di un umile pastore.

Non aver avuto la forza di vivere un amore, che richiedeva il risveglio delle loro coscienze, porterà entrambi ad abbracciare la vita spirituale.

L’autore, con spudorato coraggio, conduce il romanzo fuori dalla “zona di comfort”, scegliendo di non incastrare i protagonisti nella spiegazione, facile e veloce, di una vocazione mai abbandonata. Preferisce, invece, imbattersi nelle problematiche più profonde della natura umana, attraverso un percorso che dalla negazione (la barba che Paolo non avrà mai il coraggio di tagliare per non riconoscere se stesso e il segreto inconfessabile di Francesca) può condurre al Perdono.

Il Perdono, così come il romanzo racconta, non assolve la colpa, non la cancella, ma, attraverso un grande atto di coraggio, può trasformarla in consapevolezza.

Paolo e Francesca hanno la responsabilità di aver tradito non il loro amore, ma loro stessi e le loro #coscienze, consentendo che il passato pregiudicasse il futuro.

Il coraggio di Arcimbaldo Materiale sta nel non aver soffocato un brillante romanzo religioso nella prevedibilità del concetto di #vocazione e nell’averci raccontato una cosa scomoda che taluni chiamano #Realtà e che, di solito, va a braccetto con la Verità.

Arcimbaldo Materiale certamente sta con Joseph Conrad quando dice: “… Di un uomo si dice che ha tradito il paese, gli amici, l’innamorata. In realtà, l’unica cosa che l’uomo può tradire è la sua coscienza”.

E’ questo che dobbiamo perdonare e perdonarci.

Grazie, Balduccio.

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Cenni sull’antropologia e sull’etica in Giacomo Leopardi

di Loretta Marcon

Nell’opera di Leopardi esistono alcune riflessioni, forse non considerate o approfondite adeguatamente, che riguardano il quotidiano, il vissuto di ogni giorno; certe riflessioni personali sulla vita e sull’uomo le quali, senza avere la pretesa di toccare teoreticamente temi metafisici, fanno parte dell’esistenza di ognuno di noi.

Sono da riscoprire, perciò, non solo certi passi dello Zibaldone ma anche taluni particolari che si trovano qua e là sparsi nell’Epistolario, nei Pensieri, e nei Progetti letterari.

Se fino ad alcuni anni fa, non erano oggetto di attenzione gli episodi dell’infanzia e dell’adolescenza e le prime esercitazioni poetiche del Poeta, allo stesso modo la quotidianità semplice che egli osservava con attenzione, e persino con condivisione, non rivestiva grande interesse da parte dei leopardisti. Io penso invece che proprio tale “osservazione” possa rappresentare una chiave di lettura per rivelare non solo il poeta o il filosofo ma soprattutto  “l’uomo” Leopardi.

Chi era? Era veramente quel disgraziato, frustrato e perciò pessimista, che gli studenti recepiscono sotto le spiegazioni dei docenti o attraverso certa manualistica un po’ datata?

Mi sono chiesta spesso come Giacomo guardasse alla vita altrui: con la superiorità del suo essere nobile, con il desiderio di capire i suoi simili, con quel certo interesse che diventava fruttuoso per un pensiero successivo o, forse, con umana “invidia”?

Ma come, si obbietterà, Leopardi poteva invidiare qualcuno e, in questo caso, chi? Intendiamoci però sul termine: la sua invidia non derivava certo da un sentimento di malanimo ma ci appare invece pacata, poetica, quieta e rivolta a quel piccolo fattivo mondo recanatese che si affannava nel lavoro quotidiano; il giovane conte guardava lo zappatore che, fischiando, riede alla sua parca mensa pensando al riposo del giorno festivo, e al legnaiuol, che veglia/ Nella chiusa bottega alla lucerna, alla donzelletta che torna con il suo fascio dell’erba, alla vecchierella che siede sull’uscio di casa a filare.

“Invidia melanconica” dunque, per quelle umili povere persone non tormentate da quelle occupazioni interiori, dai martirii del pensiero tipici del filosofo e dello studioso. Si affacciava a quella finestra che guarda la piazzetta e, dopo aver deposto la penna, guardando quell’umile mondo affaccendato, privo di titoli nobiliari e senza erudizione, si sentiva prigioniero del proprio rango e del proprio pensiero, poiché comprendeva che «il modo di occupazione con la quale la vita si fa manco infelice che con alcun altro, si è quello che consiste nel provvedere ai propri bisogni» . Lo sa, ne è ben cosciente: sono «i piccoli fini della giornata» che tengono lontana la noia, intesa in senso profondo, esistenziale, quel male di vivere (cit. Montale) che i tempi moderni ben conoscono.

Esiste in proposito un aneddoto, pubblicato in un vecchio articolo del «Corriere della sera» del 19 luglio 1914 che ho ritrovato quasi per caso in una biblioteca mentre svolgevo alcune ricerche. Lo riprendo qui perché, nella sua semplicità, lo ritengo illuminante per comprendere il modo d’essere di Giacomo Leopardi:

«A Recanati, sulla via di Montemorello, di fronte al paesaggio che poté inspirare il lirismo solenne e possente dell’Infinito, v’è un masso che fu caro a Giacomo Leopardi, il quale vi si sedeva per attendere alla lettura o alla meditazione. Un vecchio negoziante che si prestava come guida al forestiero racconta, a tal proposito: “Mia nonna veniva qui sotto a far erba. Allora, al tempo del Poeta, non c’era la strada. Mia nonna si doleva che quel giovinetto se ne stesse lassù sulla balza, zitto e malinconico. E gli diceva talvolta: – Lei, signor conte, pensa troppo, a me pare. Non le fa male  alla salute studiar tanto?


Giacomo Leopardi rispondeva: “Avete ragione, Maria Domenica. Non si dovrebbe studiare mai, non si dovrebbe pensare mai. Voi beata che cogliete erba e cantate!” La mia nonna lo invitava a scendere allora nel campo; e lui scendeva, tutto buono e gentile. Aveva sempre una buona parola per i poveri e la mia nonna diceva che non poche volte egli la interrogava su questo e quel tal malato o moribondo del paese: “Che male ha?”, chiedeva. S’informava di tutto: e se qualcuno aveva malattia grave, voleva conoscere i sintomi, le fasi, le sofferenze. Qualche volta sparava il ferraiolo [mantello] e diceva alla mia nonna: “Io non ho soldi, Maria Domenica, ma ne troverò e ve ne porterò”. Così riferisce Mario Puccini, che in una sua Passeggiata Leopardiana, pubblicata nel fascicolo di luglio della “Lettura”, è guida commossa ed eloquente attraverso la città e i luoghi in cui si maturò la vita e la musa di Giacomo Leopardi».

Un aneddoto che dimostra l’attenzione di Leopardi per ogni aspetto della vita. Il suo chinarsi sul quotidiano di ogni persona che incontrava e che diveniva oggetto di osservazione e di riflessione. La famosa “torre d’avorio” – dimora esclusiva dell’élite dei sapienti che disdegna il semplice conversare con la saggezza popolare – non gli apparteneva, cercando egli soltanto le gentili anime che potessero comprenderlo.

Ha 23 anni quando inizia a riflettere sulla differenza tra vivere ed esistere.

La vera vita è quella che consente di concepire illusioni, «somiglianze d’infinito» «maravigliose larve», capacità di sognare, di entusiasmo, di calda passione, di uno slancio che porta a compiere grandi azioni o anche solo a coltivare alti ideali.

Molte sono le riflessioni leopardiane sull’antitesi vita/esistenza. Le riflessioni che emergono all’interno dell’una e dell’altra riguardano aspetti della vita, quali il sentimento, la vitalità e la compassione (intesa come amore verso gli altri). E soprattutto la speranza come scintilla che non abbandona mai l’uomo nemmeno nel momento della più grande disperazione. E, per contro, la considerazione della mera esistenza, il lasciarsi vivere, con la noia, l’indifferenza, la constatazione del limite quindi dell’impossibilità della perfezione, la possibilità del suicidio e, infine, la morte.

Com’è noto, la “filosofia” leopardiana si ritrova all’interno delle pagine dello Zibaldone e nelle Operette morali. Vi sono però altre pagine da considerare per comprendere il concetto dell’uomo in Leopardi, le sue idee intorno a vizi e virtù, il suo pensiero sull’amicizia, sulla sincerità ecc.. Sono quelle dell’Epistolario e dei Pensieri ed è in queste che noi ritroviamo quelle piccole perle di saggezza che formano quella che egli stesso chiamava «arte del vivere».

Sono pensieri che derivano dalla considerazione dei diversi aspetti di quella vita (sarebbe meglio chiamarla invece solo esistenza) che egli, inizialmente, ritiene simile ad «una commedia» (dove tutti gli uomini fanno la loro parte) ma poco dopo chiamerà «prova di commedia». Infatti, egli osserva, non ci sono più spettatori poiché tutti recitano «e le virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri».

Questi aspetti non sembrano per nulla insignificanti, quando si vuole tentare di comprendere la personalità di Leopardi.

Ed è così che scopriamo come al centro dell’interesse del Nostro non ci sia quella filosofia volta a studiare le problematiche della conoscenza ma, invece, l’indagine morale, l’etica; vista anch’essa non sotto il profilo teoretico, volta cioè alla ricerca della soluzione di classici problemi morali quali ad es. normatività e responsabilità, eteronomia e autonomia ecc.. Si tratta invece di un’etica che si può chiamare critica della vita, che si rivolge all’uomo e che risulta essere altamente umana e non lontana dalla morale evangelica poiché si basa sulla compassione reciproca tra gli uomini accomunati dallo stesso destino.

Leopardi guarda all’uomo e mette in rilievo le sue debolezze, i suoi errori, la sua ridicola superbia e quell’egoismo che impedisce una forma di vita più umana. Da sottolineare come egli non sia animato da moralismo malevolo ma, invece, da amore verso i suoi simili.

All’amico Giordani egli scriveva:

«io non credo che i tristi vivano meglio di noi. Se la felicità vera si potesse conseguire in qualunque modo, la realtà delle cose non sarebbe così formidabile. Ma buoni e tristi nuotano affannosamente in questo mare di travagli, dove non trovi altro porto che quello de’ fantasmi e delle immaginazioni. E per questo capo mi pare che la condizione de’ buoni sia migliore di quella de’ cattivi, perché le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente: sicché ristretti alla verità e alla nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno?  (1820)»

Uomo semplice e di grande modestia, non lodava mai se stesso e aveva grande rispetto per coloro che leggevano le sue opere al punto da scrivere queste righe nella Prefazione alle Rime del Petrarca da lui “interpretate”: «dovunque io non ho inteso, ho confessato espressamente di non intendere acciocché il lettore, non intendendo, non si credesse né più ignorante né meno acuto dell’interprete». Eppure era ironicamente consapevole del fatto che «chi vuol vivere si deve scordare della modestia» perché «gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso».

Invece «gli uomini grandi sono modesti perché si paragonano continuamente, non con gli altri, ma con quell’idea di perfetto che hanno dinnanzi allo spirito e considerano quanto sieno lontani dal conseguirla».

Un messaggio universale diretto agli uomini di ogni tempo! Un Leopardi tutto da scoprire!

Loretta Marcon  –  giugno 2022

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OMAGGIO A MAURIZIO FAGIOLO DELL’ARCO

Mostra evento alla Galleria Russo sede romana

di Martina Paolantoni

Inaugurato oggi giovedì il vernissage Omaggio a Maurizio Fagiolo dell’Arco (1939-2002), geniale protagonista della scena artistica italiana e non solo del dopoguerra, dal 23 giugno e fino 15 luglio 2022  alla prestigiosa Galleria Russo nella sede romana di Via Alibert 20, a cura diLaura Cherubini con la collaborazione di Maria Beatrice Mirri.

A far fede della sua peculiare versatilità e sull’intelligente anticonformismo che guidava il suo pensiero, sul gusto sicuro e raffinato delle sue scelte collezionistiche le opere in esposizione circa quaranta, per lo più provenienti dalla sua eterogenea collezione privata di Maurizio Fagiolo dell’Arco firmate: Carla Accardi, Getulio Alviani, Giacomo Balla, Alighiero Boetti, Corrado Cagli, Duilio Cambellotti, Giuseppe Capogrossi, Giuseppe Chiari, Guido Crepax, Giorgio de Chirico, Lucio Del Pezzo, Jim Dine, Piero Dorazio, Ferruccio Ferrazzi, Tano Festa, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Giorgio Griffa, Mario Mafai, Carlo Maria Mariani, Roberto Melli, Fausto Melotti, Nunzio, Giulio Paolini, Pino Pascali, Fausto Pirandello, Antonietta Raphaël, Man Ray, Antonio Sanfilippo, Giulio Aristide Sartorio, Alberto Savinio, Mario Schifano, Carlo Socrate, Armando Spadini, Francesco Trombadori, Giulio Turcato, Andy Warhol, Alberto Ziveri.

L’esposizione della Galleria Russo ripercorre il suo lavoro: lo studio caratterizzato da linguaggi inesplorati; la critica volta a far emergere artisti all’epoca sottovalutati divenuti poi memorabili; le sue mostre prototipo di tante rassegne attuali per l’impostazione multidisciplinare e l’originalità della scrittura curatoriale.

Chi era veramente Fagiolo dell’Arco? La carriera di Fagiolo dell’Arco inizia nel 1963, con la pubblicazione della tesi di laurea su Domenichino. Nel 1964, scrive per l’Avanti! articoli fondamentali per capire le più interessanti tendenze del contemporaneo commentati da disegni appositamente realizzati dagli artisti sconosciuti emergenti che di lì a poco si trasformeranno nelle star dell’arte del decennio intuendone il grande potenziale:Angelili, Ceroli, Schifano, Pascali e altri sono da subito al centro del suo interesse.

Pur coltivando l’interesse per l’arte barocca, con particolare attenzione a Bernini, alla fine degli anni ’60 inizia a occuparsi delle avanguardie di primo Novecento: Balla e i Futuristi, Francis Picabia, Man Ray divenendo in breve tempo il loro studioso di riferimento.

Ed al Dal 1979 è rapito dal lavoro di Giorgio de Chirico che osserva non solo nella ricerca  Metafisica, ma rivive in modo inedito.

Studiando de Chirico apre il suo sguardo anticipatore all’evoluzione dell’arte italiana tra le due guerre, focalizzandosi soprattutto sull’ambiente romano. I suoi studi e le mostre sulla Scuola Romana e il Realismo Magico hanno consentito al grande pubblico di riscoprire a un pagina dell’arte del ‘900 oggi apprezzatissima dalla scultura alla pittura: solo per citarne alcuni rammentiamo Pericle Fazzini, Francesco Trombadori, Riccardo Francalancia, Guglielmo Janni, Scipione, Alberto Ziveri e Antonio Donghi.

Con le sue innovative ricerche ha rivoluzionato e enormemente arricchito il nostro modo di intendere lo sviluppo della storia dell’arte dal ‘600 agli albori del ‘2000. Cita Laura Cherubini: “Grandissima figura di storico dell’arte, personalità poliedrica, brillante studioso e creatore di indimenticabili mostre. Il campo dei suoi interessi era molto ampio: spaziava dal Barocco ai Pittori dannunziani, dal Futurismo alla Metafisica, dalla Scuola Romana alla Scuola di piazza del Popolo fino agli artisti più contemporanei”.

Corollario della mostra un libro catalogo composto anche da una corposa raccolta di testimonianze di artisti, studiosi, galleristi che si trovarono a vario titolo coinvolti nel trascinante percorso intellettuale di quel pensatore fuori dagli schemi.

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UN LIBRO È LIBERTA’

di Fabio Nori giornalista Canale 10

Tripudio di pubblico e di critica per la prima edizione dell’evento “Un libro è libertà: rassegna  autori di Atile edizioniil 18 giugno 2022 a Roma alla galleria arte Sempione, con il patrocinio del Comune di Roma e i rappresentanti del terzo municipio dello storico quartiere romano.

L’evento ha portato sul palco cinque generi letterari, l’arte e la recitazione. La Casa editrice Atile Edizioni ha festeggiato importanti traguardi, ha presentato la nuova rivista AR.TE. e mostrato un calendario ricco di progetti.

L’apertura dei lavori è stata affidata ad Elita Di Girolamo la più giovane donna editrice seconda solo ad un uomo che ha presentato gli autori e la mission dell’editore. Cita Elita Di Girolamo fondatrice della Atile Edizioni: “Il lavoro con l’autore inizia con la pubblicazione del romanzo e ci impegniamo per riportare al centro di questo lavoro la persona. Per questo organizziamo presentazioni come queste, dove il pubblico può conoscere gli autori, toccare con mano le loro emozioni e rivolgere qualche domanda, e poi scegliere quale acquistare“.

La casa editrice nata un paio di anni fa  per dar voce agli autori emergenti e riportare la centralità della persona in questo lavoro, ha festeggiato i 100 titolo in catalogo.

Sabato sono stati presentati alcuni titoli della Atile Edizioni: un saggio “Versi di-vini” di Martina Poalantoni, un romanzo storico “L’inconfessabile” di Arcibaldo Materiale un romanzo d’amore “Sul gradino di marmo” di Francesca Grassi un romanzo fantasy “Thomas” di Luca Borreale. Due autori di poesie  Lorenzo Cristallini  con “Follie di un savio” e Floriana Contestabile con il suo “E mai si arrenderanno” .

Sollecitati dalle domande dell’editrice gli scrittori ed i poeti  hanno raccontato le loro esperienze e trasmesso le loro emozioni. Gli autori sono stati ancor più coinvolti dalla voce dell’attrice e doppiatrice Alessandra Cassioli che ha letto con passione e professionalità i brani scelti emozionando il pubblico.

La casa editrice supporta i suoi autori con una serie di iniziative pubblicitarie come interviste radiofoniche e televisive per permettere loro  di raggiungere un pubblico più vasto possibile.

Cita Elita Di Girolamo: “Gli autori sono seguiti sin dalla fase embrionale della creazione del manoscritto, supportati nella revisione, creazione della copertina  e poi nella pubblicazione. Ma anche nella distribuzione del loro libro ed in giornate come queste.”

Alla fondatrice Elita Di Girolamo è stata consegnata una targa come attestato di stima per la professionalità e la passione con cui si dedica alla sua professione.

Convinta dell’importanza della commistione delle arti Elita Di Girolamo ha organizzato il tutto nella cornice della mostra di pittura di Astiaso Garcia artista di fama internazionale e  promette che gli altri eventi saranno sempre circondati da musica, pittura, fotografia, scultora.

Nella festa di Atile Edizioni è stata presentata anche AR.TE. ARTE E TERRITORIO rubrica culturale a cura dell’ autrice Martina Paolantoni. Cita Paolantoni: “La nuova creatura della casa editrice è nata da un’idea mia e di Elita di Girolamo per promuovere e divulgare l’Arte e la letteratura nel nostra Paese attraverso mostre, convegni, rassegne ed articoli che promulghino le eccellenze del territorio ed i loro protagonisti. Per ora è un blog sul sito della casa editrice  a settembre sarà inaugurata la rivista“.

E nonostante sia neonata la rubrica si è già arricchita di importanti firme. Solo per citarne alcune: l’artista ed esperto di arti visive Catamo, lo storico dell’arte e poeta Ferracuti,  la filologa e leopardista Marcon, l’archeologa Sara Paoli, lo studioso e già ricercatore in lettere Raffaelli, e sono in corso nuove collaborazioni con autori ed enti.

L’evento è stato patrocinato dal Comune di Roma ed i rappresentanti del terzo municipio. Il presidente Paolo Emilio Marchionne è intervenuto insieme al presidente del consiglio del terzo municipio Filippo Maria Laguzzi hanno consegnato premi e attestati. Ed hanno ribadito l’importanza di eventi come questi per il territorio e promesso nuove collaborazioni con Atile Edizioni ed AR.TE. Arte e Territorio.

Forti di questo successo, l’appuntamento sarà il primo di molti. La seconda data è già fissata il 23 luglio a Roma, dove sarà rinnovata la partecipazione di tutta la squadra di Atile Edizoni rappresentati del Comune di Roma e prestigiosi ospiti.

Le giovani donne Di Girolamo e Paolantoni lanciano nuovi progetti culturali, nuove sinergie con il Comune e celebrazioni per ricorrenze speciali per i quali saranno indetti contest artistici e letterari. Due realtà Atile Edizioni e AR.TE. animate dal fuoco dell’Arte e la loro fama è destinata a non tramontare tanto presto.

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L’amico Giacomo e l’affitto arretrato

di Francesco Ferracuti

Nascere nelle Marche è una fortuna. Noi marchigiani lo sappiamo bene: è uno dei posti più belli al mondo. Per questo non lo diciamo a nessuno; stiamo zitti e lo teniamo per noi. Ci limitiamo a un mezzo sorriso complice quando qualche turista lo scopre da sé, transitando da queste parti sulla via della Romagna o della Toscana, ad esempio, oppure delle Puglie, a seconda della direzione di viaggio. Verso il Molise no, perché lo sanno tutti che non esiste. E insomma quando questo accade, quando la nostra Regione si disvela, allora nutriamo la soddisfazione orgogliosa del contadino -scarpe grosse e cervello fino- che osserva qualcuno godere dei veri prodotti dell’orto invece che di insapori proposte agroindustriali: come un portatore di verità lungamente celate, un San Giovanni Battista delle zucchine e della lattuga.

Anche scrivere è un vantaggio. Costa molto meno degli ansiolitici e delle psicoterapie, e comunque anche in questo caso è un impegno che si sottace, che non si sbandiera (sempre meglio esporsi poco; non si sa mai).

Va’ a sapere se questo è retaggio di sopravvivenza al dominio dello Stato Pontificio (quanto fossero aspramente esattori i marchigiani lo ricordano i proverbi) o esito di una vita cresciuta tra vallate strette in una cartolina percorribile da mare a monti in nemmeno un’ora. Studi critici anche più arditi di questi hanno cercato di spiegare il carattere  peculiare del popolo delle Marche e soprattutto il messaggio di uno dei suoi figli più splendidi: Giacomo Leopardi.

Recanati ronfa come un gatto adagiata a due colli da casa mia. Per chi ha il vezzo della letteratura (magari come il sottoscritto; magari addirittura della poesia) è come avere Giacomo per coinquilino. Un amico quotidiano che puoi non incontrare per settimane intere, ma senti vivere nella stanza accanto. E che quando scappi dagli impegni presi con te stesso, impegni di sincerità, di ricerca del Vero, per pigrizia o per paura, ecco che esce aprendo la piccola porta del suo studio (una visita a Palazzo Leopardi rende l’immagine assolutamente concreta) e con grande delicatezza, ma fermamente, ti chiede conto del ritardo nella parte di affitto che avresti dovuto già pagare da tempo.

Allora riprendi in mano tutti i fogli che hai già scritto e che sembravano fatti e finiti. Rileggi, scopri le zoppìe, gli eludimenti, le piccole disonestà perpetrate a vergogna dello sforzo dichiarato di essere sinceri con noi stessi.

Domanda, Giacomo, di conoscere la profondità della traccia lasciata dal suo peregrinare di ricercatore immoto, chiuso tra poche mura, rare vie, coste di libri a chi cova la nascosta ambizione di seguirne in qualche misura i passi.

In pagine e pagine di pensieri fissati in ordine più o meno organizzato e voluto, in dialoghi di introspezione psicologica , in continue sofferte dispute filosofiche con se stesso, ha con tenacia esemplare perfezionato uno strumento chirurgico, affilato negli studi matti e disperatissimi e nei desideri inesprimibili, alla ricerca della parola netta, ablativa, capace di dissezionare il mondo delle cose nella sua verità chiusa alla penombra anche metaforica delle persiane semichiuse di un palazzo nobiliare.

Anche non conoscendo l’intero suo corpus (bisognerebbe; sia dannata la mia ignoranza), anche con un approfondimento di grado semplicemente scolastico non si è in grado, da “vicini di stanza”, di non chiedersi quale  tensione osservativa, quale peso lessicale, quale profondità di aratura si sia stati capaci di presentare in confronto a lui, quanto si sia stati limpidi nel mettersi in gioco.

Ingombra la presenza amichevole di questo compagno di percorso nella giusta istanza di sincerità e rigore. Picchietta sulla spalla esortando a non cedere, a non lasciarsi ingannare dall’ottimismo di un conseguimento solo apparente e  andare sempre più in profondità nella forma della lingua equilibrata, rasata piana, che non allarma non minaccia non verte al rutilante o al fragoroso e facilita l’abbassamento della guardia e la scopertura ai flussi della relazione tra l’umano e l’oltreumano.

Benevolente e gigantesco, condivide il gergo locale della crescita e dell’esperienza, è uno di qui. Ma proprio per questo è il nostro specchio; il mio. Conosco chi conosci tu, so dove vai: non ci nasconde da Giacomo Leopardi, non ci si allontana. Se rappresenti il paradigma della marchigianità non saprei davvero dire, e forse sarebbe alquanto azzardato. Ma di certo per chi come me abita il senso di queste colline, un percorso di sassolini lungo un buio sentiero nel bosco.

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FRANCESCO ASTIASO GARCIA: L’ARTISTA FILOSOFO

di Martina Paolantoni

Visione poetica dell’artista è mostrare lo slancio di rinnovamento del messaggio figurativo e contemporaneamente rimanere ancorato alle radici e ai valori della tradizione classica.

Creare ponti tra l’onda artistica precedente e l’onda successiva, tendendo al superamento, attraverso armonia ed equilibrio, e velando l’oggetto pittorico per accentuarne i contenuti.

Le impressioni figurative e i messaggi di relazione con la tradizione scaturiscono perciò dalla mente di chi guarda l’opera, che tanto più esprime quanto più vasta è la conoscenza di chi la osserva.

Francesco Astiaso Garcia è nato a Roma nel 1983, quinto di sette figli, di una famiglia di origini spagnole con profonde convinzioni religiose, e inizia il suo cammino artistico rivelandosi capace di intendere la pittura e la fotografia come frutto della ricerca metafisica dell’uomo, con i travagli e le gioie che ogni vocazione artistica comporta. E le modificazioni e la crescita sono la testimonianza di una continua ricerca di nuove forme espressive, come ponti tra il classico e il presente espressivo, e nuovi temi d’indagine su sé stesso, la propria anima, la propria ispirazione. 

Sebbene il discorso pittorico si componga sopra uno sfondo culturale cattolico, il messaggio evangelico espresso da Francesco Astiaso Garcia ha uno stile originale testimoniato dal percorso figurativo che tende verso l’astrazione, ma cerca il punto in cui la costruzione dell’immagine e il messaggio sono nel loro perfetto equilibrio.

Ed è spinto a riversare sulla tela le vibrazioni di un artista che ha conservato la sensibilità creativa, assecondando la definizione dell’opera pittorica di cui l’autore raccoglie le suggestioni che riesce a rappresentare.

L’autore riesce a produrre opere pittoriche e fotografiche che fissano sul supporto fisico il momento poetico che le origina, generate dall’artista nel momento dell’ispirazione, proiettandosi verso la vita, superando il frastuono e il dilagare delle immagini offerte da una società frenetica.

Convinti i genitori ad assecondare il precoce talento compie studi artistici all’Accademia delle belle arti di Roma, (laurea cum lode) e presso accademie Des Beaux Arts di Parigi.

Astiaso Garcia coltiva l’interesse per la pittura e le  arti figurative dichiarando che: “Per tornare a dipingere come i bambini dobbiamo prima imparare a dipingere come Raffaello”.

Per arricchire la sua conoscenza artistica inizia viaggiare per  il mondo come un viandante alla ricerca di se stesso. Affresca pitture murali a Varsavia, Shanghai, New York, etc.

Avvia importanti collaborazioni con artisti di fama internazionale: tra questi a Madrid, con il grande pittore e maestro di vita Kiko Argulello, collabora alla realizzazione di affreschi dell’Abside della cattedrale della città.

Dopo questo periodo itinerante si ristabilisce a Roma dove vive ed opera.

In questi anni la sua produzione artistica è incessante, e il suo curriculum artistico vanta numerosi eventi, tra esposizioni personali in Italia ed all’Estero.

Ha realizzato importanti commissioni per la Santa Sede, ed è assegnatario del Premio Internazionale “Giovanni Paolo I” ricevuto nel2015 per essersi distino nel campo dell’arte per la sua testimonianza cristiana.

Di recente, frequenta Marko Ivan Rupnik durante la realizzazione della sua opera presso la cappella del Seminario Maggiore in San Giovanni Laterano.

Si avverte anche una viva sensibilità psicologica che lo porta a distaccarsi dal figurativo e volgere la sua poetica verso un nuovo universo iconografico.

Suggestioni figurali, con un segno sottile, nebuloso, quasi impalpabile, creano una molteplicità di valenze sotto-intese al ritratto. Sono quasi sempre rappresentate con colori pastello, dal rosa all’azzurrino, con pennellate di giallo. Un’evocazione dello spazio attraverso le sue vibrazioni luminose; una tessitura cromatica ricchissima e trasparente.

Cita Astiaso Garcia: “Il bello dell’arte che non si sa dove si vuole andare: si comincia un dipinto a volte con una convinzione, ma la forza vitale ti porta a tutt’altra conclusione”.

Dopo aver maturato una profonda conoscenza delle diverse tecniche espressive tradizionali, dove trova spazio la serigrafia, sperimenta altre arti figurative: la fotografia, la scultura. L’Arte conduce alla libertà creativa con un discorso che riporta alla natura. In inverno raccoglie elementi naturali dalla spiaggia, li rielabora nel suo studio per rappresentare il mondo dentro e fuori di noi con forme e colori, materiali.

Le radici di uomo del sud Europa rimangono, per così dire, intatte e rivivono nel suo tratto caldo e pastoso. Soprattutto nei paesaggi, sempre più tesi all’astrattismo il movimento raggiunto attraverso l’esaltazione del colore, Astiaso Garcia sa dialogare con elementi di naturalistici e coloristici. Del lungo viaggiare per il Sud America riporta i colori pastello, per lo più in belle tinte azzurrine che ricordano anche lo skyline delle Maldive, in cui il cielo si tuffa nell’Oceano.

Occorre riconoscere che gli elementi naturali, come l’acqua, il fuoco e la terra, nella sua opera si fondono, si sovrappongono e si rincorrono. A volte ben delineati; a volte tangenti sempre più tesi  all’infinito. Man mano, in contrasto con la velocità a cui siamo abituati, allude a un mondo pulito e lineare, la sintesi è il mistero e l’essenza della natura.

L’osservazione della realtà è per Astiaso Garcia una fame epistemica, un bisogno filologico di conoscenza; la rappresentazione della realtà sublimazione; e la mediazione pittura un atto creativo, liberatorio, che squarcia i veli che avvolgono la realtà per penetrarla a fondo.

Fotografo, scultore pittore e,suggeriamo, filosofo. Il suo impegno culturale non si esaurisce nei suoi dipinti. Di recente i suoi i dipinti hanno fatto da sfondo allo spettacolo teatrale di Giovanni Schifoi Gigi de Paolo all’auditorium della Conciliazione, in occasione degli Stati generali delle Natalità, ed ancora in convegni letterari e umanitari.

Dal 2019 è segretario nazionale dell’UCAI (Unione Cattolica Artisti Italiani) e Segretario della redazione della rivista “Arte e fede”, curando i rapporti con quanti nel mondo delle arti, si impegnano al servizio della promozione della persona e del patrimonio artistico. In questa veste ha raccolto l’appello del Santo Padre, che invita, attraverso l’Arte, a porre al centro la dignità umana.

Mentre il mondo ci sta paralizzando nel conformismo, Astiaso Garcia dimostra che facendo giungere negli animi le emozioni di tutti colori è capace di affermare che solo con la passione e la tenacia si costruisce la vita. Si prepara con una nuova stupefacente mostra a Roma: il sesto giorno. E si fa portatore di un messaggio universale di futuro e di speranza: l’Arte vince le paure, vola oltre le incertezze, avvicina le anime e porta colore e gioia nella vita di chi la serve e di chi la osserva.

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Dante è passato ad Otranto!

Lo svelano i versi della Divina Commedia

di Martina Paolantoni

Tra le terre Salentine e il Mar Adriatico sorge un’eccellenza plurimillenaria di cultura e di intreccio di civiltà, traccia concreta del passaggio dell’arte orientale nell’arte bizantina in queste terre è il mosaico pavimentale della basilica cattedrale di Santa Maria di Otranto, contenente inaspettate allusioni ai versi della Divina Commedia.

Le fortissime corrispondenze tra le figurazioni del pavimento ed i versi danteschi sono tali da indurre gli studiosi a ritenere che Dante Alighieri sia giunto ad Otranto, avrebbe visitato la Cattedrale di Santa Maria Annunziata, e qui si sarebbe spalancato al suo sguardo il mosaico che occupa “Lo duro pavimento” (Canto XII del Purg.) e da questo abbia tratto ispirazione per disegnare in rima i regni ultraterreni nella Divina Commedia.

Convinto testimone ne è Donato Catamo, umbro di adozione dai natali salentini, artista e studioso considerato tra i massimi esperti di arti figurative contemporanee, che ha regalato ad AR.TE. la sua esperienza, citando un episodio della sua gioventù: “Visitai la cattedrale di Otranto quando ero al ginnasio, a 14 anni. Allora mi illustrarono le analogie con la Divina Commedia. Anche se non conveniva sottolineare la non completa originalità dell’opera dantesca, ne rimasi profondamente colpito tanto da indirizzare parte degli studi ad intrecciare queste corrispondenze e trarre dal mosaico e dalla Commedia ispirazione per la mia Arte”.

La grande composizione museale della cattedrale di Otranto fu ideata e messa in opera tra il 1163 e il 1165 dal monaco Basiliano Pantaleone e dagli allievi della sua scuola. Dopo Foggia e Palermo, Otranto era una delle città più importanti del mediterraneo medievale. Spiega così Catamo: “Era più simile ad una Manhattan dell’arte Bizantina”. Ad Otranto confluirono svariati influssi religiosi come quello greco bizantino, basiliano e cristiano-cattolico, attraverso le esperienze di artisti e artigiani provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto. Pantaleone, formatosi nel vicino monastero greco bizantino di San Nicola di Casole, frequentando una delle più ricche biblioteche dell’Occidente e la scuola pittorica, che probabilmente presiedette, diede vita a quest’opera che riassume i simboli e il linguaggio che riassume il pensiero di quelle comunità religiose.

Il mosaico risente degli influssi di altre civiltà : quella illirica salentina e messapica, che si annoda a quella romana, bizantina e normanna, sveva e aragonese, con influssi arabo musulmani, e  rappresenta simbolicamente le ramificazioni un gigantesco albero della vita, un’ immagine che proviene dal mondo medievale e rappresenta il mondo terreno in modo allegorico , proprio come illustrato nell’opera dantesca.

L’albero della vita, cominciato con Adamo ed Eva, dirama le sue sinapsi fra medaglioni con animali, figure del mito Caino Abele, il diluvio universale, Diana. Accanto ai due elefanti  sono rappresentati guerrieri e, sopra ai primi rami dell’albero, cacciatori e animali fantastici. Più in alto a sinistra si osserva un volto di leone da cui dipartono quattro corpi ferini disposti a croce mentre, nella parte a destra dell’albero, Alessandro Magno – affiancato dalla scritta “Alexander rex” –ed altri racconti diffusi in epoca medievale, fino la leggenda di Re Artù ed il ciclo bretone. Procedendo lungo lo sviluppo dell’albero, a sinistra la Torre di Babele; Noé, mentre coltiva la vigna, Diluvio universale, l’Arca. E dodici tondi con raffiguranti dei mesi ed i segni zodiacali e i lavori campestri.

Ma ciò che copice è la rappresentazione musiva laterale: la rappresentazione dell’inferno, nella navata di destra la raffigurazione del paradisocon i dannati  avvolti da dalle fiamme  Ancora dannati serpenti genti nude spaventate citate nell’inferno sembrano proprio la descrizione del pavimento della navata sinistra della cattedrale.

Le similitudini si rincorrono e si sovrappongono. Tre gli alberi del mosaico, altrettanti sono nelle tre cantiche della Divina Commedia; nella navata centrale dove formano l’albero della creazione o della rinascenza su mosaico pavimentale ha delle analogie con il canto 20 canto 18 del Paradiso versi 29 e 30: “l’albero che vive dentro la cima barra, e frutta sempre, e mai non perde foglia;.e così pure nel giudizio.

Come è possibile ciò se le opere sono state composte a 156 anni di distanza? Secondo Catamo, che fa suoi illustri studi internazionali, Dante dopo essere stato bandito dal “bell’ovile” sarebbe disceso da Luca intorno al 1303, per via di terra lungo la costa adriatica, o bordeggiando sull’imbarcazione di fortuna, scivolando sulle acque sotto mentite spoglie. Raggiunta la città magnogreca avrebbe avuto come guida il coltissimo Fra Lea Kim, che avrebbe fatto conoscere al Poeta il Sole della città Messapica e condotto a visitare la cattedrale. Se non direttamente l’Alighieri, è plausibile che ne abbia avuto notizia da Guido Cavalcanti, maestro di Dante, che alcuni anni prima fu accolto nella Frateria.

Invero, una volta presa la via dell’esilio, il Poeta viaggiò molto per la penisola. Di alcuni passi abbiamo la sua stessa testimonianza, di altri restano molti spazi bianchi ed è qui che fatalmente l’immaginazione trova il varco per infilarsi e far fiorire ipotesi. 

In ogni caso Dante è stato messo al corrente dell’esistenza dell’importante pavimento e delle sue rappresentazioni, ed è possibile che abbia seguito per analogia, soprattutto nella stesura dell’inferno, la traccia illustrata dal frate Basiliano. Entrambi gli autori espressero una cultura vastissima acquisita su manoscritti spesso minati di testi antichi, e si servivano dei grandi contenuti del passato attingendo all’opera Virgiliana e avviarono quel processo di emancipazione e rinnovamento dell’età che attraversavano.